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Roland Barthes, la fotografia e la luce

La mia collega Clara poco tempo fa mi ha prestato un libro che parla di Fotografia, il libro in questione è di Roland Barthes e si intitola “La camera Chiara”. (L’articolo continua sotto la foto ▼)

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È stato scritto nel 1980.
Non ho i titoli ne per parlare dell’autore (che prima non conoscevo) ne per analizzare il libro ma ho il desiderio di condividere qui il capitolo 34 (quasi per intero, in barba alla SIAE).

Distanza di spazio-tempo-esperienze ma affinità di pensiero.
Leggete.

“La camera Chiara”

Capitolo 34
Si dice sovente che a inventare la Fotografia (trasmettendone l’inquadratura, la prospettiva albertiana e l’ottica della camera obscura) siano stati i pittori. Io invece dico: sono stati i chimici. Infatti il noema “È stato” non è stato possibile che dal giorno in cui una circostanza scientifica (la scoperta della sensibilità alla luce degli alogenuri d’argento) ha permesso di captare e di fissare direttamente i raggi luminosi emessi da un oggetto variamente illuminato. La foto è letteralmente un’emanazione del referente. Da un corpo reale, che era là, sono partiti dei raggi che raggiungono me, che sono qui; la durata dell’emissione ha poca importanza; la foto dell’essere scomparso viene a toccarmi come i raggi differiti di una stella. Una specie di cordone ombelicale collega il corpo della cosa fotografata al mio sguardo: benché impalpabile, la luce è qui effettivamente un nucleo carnale, una pelle che io condivido con colui o colei che è stato fotografato.
In latino “fotografia” potrebbe dirsi: “imago lucis opera expressa”; ossia: immagine rivelata, “tirata fuori”, “allestita”, “spremuta” (come il succo d’un limone) dall’azione della luce. E se la Fotografia appartenesse a un mondo che fosse ancora in qualche modo sensibile al mito, senz’altro si esulterebbe dinanzi alla ricchezza del simbolo: il corpo amato immortalato dalla mediazione di un metallo prezioso: l’argento (monumento e lusso); e inoltre bisognerebbe aggiungere che questo metallo, come tutti i metalli dell’Alchimia, è vivo.
Forse è perché mi entusiasmo (o m’incupisco) nel sapere che la cosa di un tempo, per mezzo delle sue irradiazioni immediate (le sue brillanze), ha realmente toccato la superficie che a sua volta il mio sguardo viene a toccare, che io non amo affatto il Colore.  Un dagherrotipo anonimo nel 1843 mostra, in un ovale, un uomo e una donna, colorati in un secondo tempo dal miniaturista dello studio fotografico: ebbene, io ho sempre l’impressione (poco importa che cosa accade realmente) che, allo stesso modo, in ogni fotografia, il colore sia un’intonacatura apposta successivamente sulla verità originaria del Bianco-e-Nero. Il colore è per me un belletto, un make up (come quello fatto ai cadaveri). Infatti, ciò che mi sta a cuore non è la “vita” della foto (nozione puramente ideologica), ma la certezza che il corpo fotografato mi tocca con i suoi propri raggi, e non con una luce aggiunta successivamente. […]  

Alessandro Lannocca

Nasce a Saluzzo ma ora vive un po' a Polonghera ma spesso è a Torino. Incontra la fotografia analogica in uno splendido corso durante l’inverno del 2008 passato a Madrid (in Erasmus) col prof. Guillermo, in cui ha l’occasione di sperimentare pellicole, liquidi ed ingranditori. Da allora scatta, stampa, scrive.

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